Prima Effe

Bellismo

“Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno”. Così dice Pavese, e non posso che concordare, in questo momento, al limite della distopia, che tutti stiamo vivendo.
Un docente, tra innumerevoli mail e piattaforme digitali, non può che tornare con la mente alle lezioni in classe, ripensando al privilegio di poter lavorare ogni giorno con bambini e ragazzi. A me, per lo meno, capita con grande frequenza. Ho ripreso in mano anche dei lavori dei miei alunni e ho ripensato al giorno in cui questi lavori sono stati realizzati…
 Qualche tempo fa, i miei studenti hanno svolto un compito in classe, il classico tema di italiano.

Ho scelto di farli riflettere sul tema della prevenzione e lotta a ogni forma di discriminazione e violenza di genere e tra pari come bullismo e cyberbullismo, a partire dall’incontro organizzato dalla mia scuola media in collaborazione con l’Associazione FARE X BENE.
In quell’occasione, Valentina Pitzalis era venuta a scuola e il suo intervento aveva dato un valore aggiunto alla già preziosa attività dell’associazione.
Ho visto i miei studenti sinceramente emozionati e attenti, interessati all’aspetto umano oltre che alla vicenda di cronaca e al connesso gusto voyeuristico cui sono abituati a causa di tanta discutibile televisione.
Pertanto, mi accingo a correggere quei temi con un approccio positivo, sperando di trovare su carta quelle riflessioni abbozzate a voce in classe. Ad eccezione di due o tre ragazze, più mature benché in difficoltà nella messa per iscritto delle loro idee, i più si sono lasciati andare a commenti spiazzanti: chi ha parlato di paura di fronte a una persona sfigurata, chi ha usato termini come schifo o disgusto.
E io mi sono arrabbiata: per me è stato come se avessero deliberatamente adoperato quelle parole per offendere.

Poi, con il filtro del tempo, panacea di tutti i mali, ho analizzato la situazione.

Ai miei studenti mancano proprio le parole, le parole per esprimere ciò che provano in un modo che risponda fedelmente a ciò che provano, ma filtrate attraverso il velo invisibile della considerazione dell’altro.
Quando si comunica, del resto, c’è un mittente e c’è un destinatario, chi manda e chi riceve quel messaggio, che accoglierà con il suo vissuto, la sua educazione, la sua morale.
Eppure i miei alunni, nativi digitali, sono al grado zero della comunicazione sociale.
Per loro non esiste mai l’altro, non esiste mai un’anima che agisce e re-agisce ai loro stimoli.
Si esprimono come se avessero davanti uno schermo e, di fatto, nessuno, quindi dicono ciò che in quel momento stanno pensando senza filtro alcuno.
Tuttavia io, che pure sostengo il principio della libertà di poter dire ciò che si pensa nel modo in cui lo si pensa, mi arrabbio quando questo si verifica tra i miei alunni e chiedo loro di riformulare quanto detto o scritto. Non è censura, sia chiaro, non vorrei mai vietare loro di esprimere un’idea, qualunque idea.
Che la esprimano, permettendo a me di ragionare con loro sul perché, forse, questa idea non merita grande considerazione. O non la merita perché espressa in una forma imprecisa, confusa, quando non scorretta.
Ai giovani manca un linguaggio adeguato per esprimere le loro sensazioni: impoveriti da un uso limitato della lingua – ridotta per lo più a frasi fatte, hashtag ed emoticon-, nel momento in cui sono chiamati a rispondere a domande che implicano una riflessione profonda su di sé e sull’altro, lo fanno in maniera goffa, superficiale se non offensiva. Non con il chiaro intento di offendere, ma quello è il risultato.

Il passo successivo, in classe, è stato un esercizio di scrittura creativa, a partire dal medesimo argomento (gutta cavat…).
Da quei “caviardage”* sono venute fuori delle riflessioni delicate e profonde, di amore, di sofferenza e di speranza. Quasi che, di fronte a una pagina già scritta, gli alunni siano stati in grado di setacciare e dare voce alle loro emozioni che altrimenti non avrebbero mai espresso, attraverso un lavoro silenzioso di ricerca delle parole emozionali, quelle che toccano l’anima e che ispirano, per come suonano, per quanto esprimono, per ciò che riescono a suggerire ed evocare.

Tanti studenti hanno poi detto: “Ecco, quello volevo dire ma non riuscivo a farlo”, “Sono contento di aver fatto questo esercizio, non sapevo come dire quello che volevo dire”.

Sono questi i momenti in cui mi sento una privilegiata: ho permesso a un giovane di trovare sé stesso attraverso un foglio, una matita e dei colori, ho aiutato un giovane a trovare le parole giuste per dare forma a quei pensieri, sempre così confusi, che lo animano.
Sorrido. Le parole spesso mancano, vero, ma si possono trovare.

Come i cercatori nella valle del Klondike, superata la fatica e i momenti di abbandono, anche noi possiamo trovare le agognate pepite d’oro nel fango.
Eliminato questo strato, poi, si rivelano splendide e di immenso valore.

Alessia Tsagris
Insegnante di Lettere, Istituto Secondario di Primo Grado Primo Levi, Milano

…πλούσιος με όσα κέρδισες στο δρόμο,
μη προσδοκώντας πλούτη να σε δώσει η Ιθάκη

*Il Caviardage é un metodo di scrittura poetica che aiuta a comporre poesie e pensieri attraverso precise tecniche e strategie.
Usualmente si parte da una pagina bianca mentre in questo caso l’avvio è dato da un testo già scritto: pagine strappate da libri da macero, articoli di giornali e riviste, ma anche testi in formato digitale.
Si tratta di annerire con tratti di pennarello il testo di una pagina, ad eccezione di alcune parole che, lette in sequenza, danno vita a una piccola poesia, o a un componimento il cui senso è di solito diverso da quello originario.
Grazie alla contaminazione con svariate tecniche artistiche espressive (quali il collage, la pittura, l’acquarello, etc.) si creano poesie visive: piccoli capolavori che attraverso parole, segni e colori danno voce a emozioni altrimenti difficili,, da esprimere nel quotidiano.