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Il mare

Fuori da Gaza c’è il mare. Ma il mare è anche dentro Gaza. La bagna e assorbe in un continuo riflusso. Il mare è l’orizzonte instabile, liberatorio e disperatamente finale che incornicia le vite di due gemelli palestinesi, Iman e Rashid Mujahed, protagonisti del romanzo d’esordio della scrittrice di origini palestinesi Selma Dabbagh. Il mare è il punto di partenza e di arrivo delle loro complesse vicende esistenziali, segnate da un costante senso di solitudine e spaesamento.

Il paradosso

Il romanzo percorre la storia della famiglia Mujahed, attorno cui ruotano le vite di vicini, amici e figure minori, che vivono la loro quotidianità inciampando nel caos di una situazione paradossale nel senso letterale della parola, ovvero al di fuori di una doxa, di un “senso comune” del bene e del male. Per rendere tale paradosso, Selma Dabbagh scompone lo spazio. Non ci sono campi lunghi in questo romanzo, eccetto quello del mare, e al lettore sono volutamente imposti i dettagli di luoghi, corpi e suoni. Il rumore di passi perduti in spazi alienanti, il fragore di esplosioni, gli oggetti consunti che arredano la vecchia casa di famiglia, i gesti ripetuti (…), i particolari di corpi umiliati e spezzati, sono il filo che circonda la trama narrativa.

Tre luoghi

Il romanzo si sviluppa principalmente attraverso tre poli: Gaza, dove la storia inizia e si conclude, il Golfo arabo (…) e infine Londra. Nella città britannica, tuttavia, i due fratelli realizzano, per vie diverse, la sconcertante verità di “non esistere” e di non riuscire a trovare un senso al vivere in quello spazio di complice neutralità. Londra è il luogo dell’inutile chiacchiericcio, le sue strade sono “deliranti di inutili sciocchezze”. In quel mondo, dove la dimensione del politico è cancellata, o disciplinata all’interno degli schemi delle associazioni umanitarie, per loro non c’è posto(…). E così nella parte finale del libro, la più toccante, fuori da Gaza torna ad essere dentro Gaza. I due fratelli tornano e la luce del cielo e il mare del Mediterraneo si sostituiscono allo spento grigiore londinese, ma portano il fragore delle esplosioni, gli attacchi e un finale tragico e intensamente poetico.

Una doppia identità

Nella lingua del romanzo, scorrevole e colloquiale, la scrittrice gioca con la sua doppia identità, araba e inglese. Il testo è intessuto di espressioni colloquiali palestinesi, espressive al punto tale da non necessitare neppure di una traduzione, benché nell’edizione italiana si sia provveduto ad aggiungere un glossario. Il gioco delle lingue contribuisce a dare concretezza ai dialoghi ma vi aggiunge anche lo spaesamento, costringendo il lettore a esperire, attraverso le parole, un frammento della condizione di dispersione identitaria. (…)

Elisabetta Benigni

Le recensioni sono a cura di