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Gianluca Mori si interroga innanzitutto su cosa significhi “ateismo” in età moderna: apologeti e presunti atei concordano nel dire che non si tratta di negare l’esistenza di una causa prima, ma di rifiutare che essa si configuri come un’intelligenza libera e creatrice. Da questo punto di vista, ci sarebbe una continuità tra l’ateismo cinquecentesco e quello moderno: la differenza tra i due si situerebbe piuttosto su un altro versante, quello della distanza che separa la concezione rinascimentale della natura da quella propria del meccanicismo e delle sue modificazioni. Coerentemente con questa definizione dell’ateismo, Mori
 include nella sua lista di
 autori Spinoza: anche tralasciando la separazione tra la pietas religiosa e
 la verità filosofica che caratterizza il Tractatus theologico-politicus, il Dio-
sostanza dell’Ethica non è una libera intelligenza creatrice.

Si potrebbe obiettare da un lato che Spinoza si è sempre di
feso dall’accusa di essere ateo, dall’altro che ritenerlo tale significa aderire a una definizione ancora antropomorfa della
 divinità. Se ci pensiamo 
bene, in fondo anche il
 piissimo Nicolas Malebranche fu accusato di
 ateismo (e spinozismo) 
per motivi analoghi: il
suo Dio è spesso definito
come “essere in generale”
e segue un ordine che
 sembra privarlo di ogni libertà intesa come progettazione e scelta assolutamente indeterminata.

Cosa fare nei casi in cui non sembra lecito mettere in dubbio la sincerità degli autori? Mori risponde evitando di sondare le coscienze e adottando un parametro di classificazione esterno, nei numerosi casi in cui non possediamo dichiarazioni esplicite di ateismo: quali sono le condizioni necessarie e suffcienti per essere ritenuti degli atei, tra Sei e Settecento? In presenza di queste condizioni, si può parlare di ateismo a prescindere dalle convinzioni personali dell’autore.

 

Nei capitoli successivi sfila una lunga serie di personaggi. Alcuni, come Pierre Bayle, sono con ogni probabilità credenti, ma si stagliano come instancabili indagatori delle aporie della teologia cristiana, esposte in tutta la loro cruda nettezza. Viene poi la nutrita schiera di autori i cui testi hanno circolato clandestinamente nella prima metà del Settecento, per poi essere talvolta scoperti e pubblicati da Voltaire o da d’Holbach: il curato Jean Meslier, che ha consegnato in un voluminoso Testament le sue vivaci critiche alla teologia cristiana; Henri de Boulainvilliers, uno dei filosofi più importanti per comprendere che cosa si intenda per spinozismo nel Settecento; César Chesneau Du Marsais e Nicolas Fréret, paradigmatici esempi di atei ben integrati nella società dell’epoca che, a differenza di molti altri, non si affidano a una metafisica per sostenere le proprie critiche al concetto di Dio, ma propendono per un empirismo altrettanto capace di minarne le basi.

 

L’ateismo non è tuttavia una questione solamente francese. Anche la Gran Bretagna ha partorito autori come John Toland e Antony Collins che non solo si sono vivacemente opposti al pensiero dominante, ma hanno redatto opere che hanno passato la Manica e, sotto forma di traduzioni e adattamenti, hanno contribuito ad animare il dibattito filosofico francese. Il capitolo britannico si chiude su Hume.

Qui il lettore potrebbe sobbalzare ancora più vivacemente di quanto abbia fatto di fronte alle pagine dedicate a Spinoza: non è forse noto che il deismo cui aderisce Hume gli renderà difficile apprezzare la compagnia di atei conclamati come d’Holbach, durante un suo viaggio in Francia? E il suo scetticismo non lo mette al riparo da ogni adesione all’ateismo apodittico in salsa francese? Mori mostra che negli scritti di Hume troviamo una serie di argomenti che mettono in seria se non in definitiva difficoltà la teologia razionale: la critica del concetto di causa e il rifiuto della prova a priori eliminano i due fondamenti su cui si basavano le prove dell’esistenza di Dio; l’uso delle argomentazioni bayliane gli permette di dimostrare che il creazionismo si rivela intrinsecamente contraddittorio.

 

La triade illuminista Voltaire, Diderot, d’Holbach occupa la parte finale del libro. Mori segue il grande patriarca di Ferney nella sua lunga e duplice lotta: contro la superstizione e contro l’ateismo.

Scopriamo però che, mentre l’adesione al deismo rimane costante, non altrettanto si può dire dei contenuti con cui questa scelta viene sostanziata.

Voltaire infatti dapprima attribuisce a Dio un’intelligenza progettuale; poi propende per un emanatismo che ha punti di contatto con lo spinozismo; quindi rinuncia all’infinità e alla spiritualità di Dio; infine ammette che è difficile essere certi della sua esistenza e che dobbiamo accontentarci di una grande probabilità. Ma in un certo senso l’opposizione più netta è quella che Mori disegna tra d’Holbach e Diderot: il primo autore di una vera summa di tutti gli argomenti addotti contro la teologia razionale; il secondo, invece, interessato meno a squadernare le aporie del teismo e del cristianesimo, che a esplorare le diverse opzioni messegli a disposizione dal materialismo. Come se il problema di Dio e della sua esistenza fosse ormai diventato secondario, e avesse preso il sopravvento l’urgenza di spiegare l’origine della vita e del pensiero.

 

Se l’ateismo dei moderni non è un mero prodotto apologetico, per Gianluca Mori esso è certamente il fratello siamese della teologia razionale: perché ne sfrutta le difficoltà; perché la insegue smontandone argomenti e prove; ma soprattutto perché, in quasi tutte le sue manifestazioni, non mette in dubbio il presupposto causale su cui essa si fonda. Non si tratta quindi di contestare il fatto che esista una causa prima, ma solo di determinare quali caratteri essa abbia. Questo libro non ci restituisce solo il pensiero di autori solitamente esclusi dal canone della storia della filosofia, o raramente inclusi, ma ricostruisce dialoghi e connessioni che contribuiscono a rivelare la portata filosofica dell’ateismo dell’età moderna.

 

Antonella Del Prete

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