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MORFISA O L’ACQUA CHE DORME

NELLA NAPOLI DEL MEDIOEVO
In questo suo ultimo romanzo, Antonella Cilento sceglie una collocazione temporale alquanto impegnativa, ovvero il passaggio tra l’Alto e il Basso Medioevo, quando intorno al ducato di Napoli si davano battaglia tanti, troppi contendenti: dai bizantini ai normanni, dai longobardi agli arabi. Materia quanto mai propizia alla narrazione avventurosa, ma occorre tener presente che ogni avventura, in questa trama, è cucita con il filo variopinto degli innumerevoli riti e miti di Napoli, fra sirene e sibille, San Virgilio e San Gennaro. E particolarmente interessante risulta la doppia prospettiva incarnata dai personaggi principali che l’attraversano, in mezzo a una folla di comprimari e semplici comparse: da un lato Teofanès Arghìli, poeta di corte bizantino devoto al culto delle storie, e dall’altra Morfisa, che di tutte le storie è fonte primaria.

UNA FESTA DELL’IMMAGINAZIONE
L’occasione che li fa incontrare, e mette in moto la vicenda, è l’incarico affidato a Teofanès di portare a Costantinopoli Crisorroè, primogenita del duca Giovanni, come sposa per l’imperatore. Ma quando sbarca a Napoli, la testa dorata della promessa sposa è la prima cosa che vede, impigliata nella rete d’un pescatore: e non immagina nemmeno, il povero Teofanès che questa sarà soltanto la prima delle sorprese che la città di Partenope gli riserverà. Succedono cose ben strane : ci sono monache che s’alzano in volo, sibille miniaturizzate in bottiglia, fontane che hanno il potere di trasformare maschi in femmine, aquile, cinghiali e balene che si materializzano dal nulla, acque che fanno viaggiare nel tempo e nello spazio. E a questa che si preannuncia come autentica festa dell’immaginazione e si dispiega in forme sempre diverse e seducenti nell’intero arco della narrazione, presiede lieta e imperturbabile Morfisa, l’eroina che non t’aspetteresti. Perché Morfisa è creatura ibrida al di fuori d’ogni canone, con il visetto scuro di araba, un’espressione dolcissima da Madonna bizantina, lo sguardo malizioso e l’eloquio schiettamente napoletano, i piedini monchi che aspettano la notte per distendersi prodigiosamente nella corsa.

 L’UOVO MAGICO DELLE MILLE STORIE
Si accendono, procedendo nella lettura, scintille di purissimo divertimento: e non solo per le imprevedibili e talvolta buffe metamorfosi che toccano in sorte a diversi personaggi, compreso Teofanès, ma anche perché quell’Uovo di Virgilio, potente talismano della città, viene ad assumere la funzione di generatore infinito di storie, e dunque non può non stimolare l’avidità del poeta bizantino che in sua presenza si sente “forte, immortale, ingravidato di poesia”. E così, se buona parte della narrazione è dedicata agli ingegnosi trafugamenti dell’Uovo effettuati da Teofanès e agli ancor più ingegnosi recuperi di Morfisa, la beffa e il relativo divertimento nascono dalla constatazione che i miracolosi effetti della creatività sprigionata dall’Uovo nel corso delle varie epoche storiche se li godono gli altri letterati, con grande scorno di Teofanès: a partire dalla dama di corte giapponese che vi trova ispirazione per La storia di Genji (…), per finire a un “martoriato” della corte estense che vaneggia d’una maga chiamata Marfisa e a un teatrante ubriacone inglese di nome William. Impresa assai difficile era trovare il finale adeguato a una storia come questa, ma ancora una volta la scrittrice s’affida a Morfisa: lei ch’è donna di valore e pure sirena, sa benissimo che c’è sempre un possibile colpo di coda.

Maria Vittoria Vittori

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