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Suscitare il desiderio di scoprire o rileggere la più celebre opera milaniana è l’esplicito obbiettivo che si prefigge Andrea Schiavon, in un efficace contributo ospitato non a caso in una collana, Incendi dell’editore torinese Add, che vuole accendere la passione per quelle personalità a cui sono dedicati i libri che la compongono.

L’autore, giornalista sportivo dalla prosa agile e gradevole, riesce nel suo intento, e non solo: con la competenza che sarebbe da attendersi solo da un “addetto ai lavori” mostra limiti e problemi della scuola italiana di oggi. Riesce a farlo proprio dando voce alle ragazze e ai ragazzi che incontra in alcuni istituti di istruzione superiore (e formazione professionale) in giro per l’Italia, con i quali ha lavorato sulla Lettera di Barbiana. Il libro è un vivace resoconto di questa particolare esperienza, a metà fra la didattica e l’inchiesta sociale, capace di mettere il dito nella piaga di molte cose che non vanno.

Perché molti adolescenti, si chiede Schiavon, si impegnano con passione di pomeriggio dando ascolto al loro allenatore, mentre la mattina appaiono totalmente indifferenti agli adulti che hanno di fronte? Perché le classi di oggi appaiono ancora luoghi ostili per i “timidi”? Perché molti ragazzi “non vedono collegamenti tra la vita dentro e fuori la scuola”, anche a dispetto delle sciagurate innovazioni come l’alternanza scuola/lavoro? E si potrebbe continuare, chiamando in causa, come opportunamente si fa in questo libro, la nefasta centralità del voto nel rapporto didattico fra docente e discente o l’incapacità di molti insegnanti di appassionare allo studio, facendone capire scopo e valore. La realtà, ci dice Schiavon, è dunque assai lontana da quella che potrebbe essere se lo studente-persona fosse davvero al centro dell’impegno di tutti i docenti, ma non si può nemmeno sostenere che nelle nostre aule non si trovi nulla di buono.

Uscita di scena la generazione dei docenti del Sessantotto, cui la stessa Roghi nel suo libro tributa il meritato riconoscimento a partire dalla sua esperienza personale, restano comunque moltissimi insegnanti, anche i più giovani, che dell’elaborazione di don Milani (e degli altri pedagogisti democratici) fanno tesoro. Sono, spesso, proprio quelli contro cui si scagliano gli strali dei laudatores temporis acti che vorrebbero che il priore di Barbiana non avesse mai scritto, insieme ai suoi allievi, quel testo destinato a fare epoca. Quelli che pensano che l’aggressività, l’insuccesso o il disorientamento degli alunni dipenda dalla “fine dell’autorità” dei maestri, perdendo però di vista il contesto nel quale le cose accadono. Come se famiglie, origini, tensioni sociali, retoriche pubbliche, nuove tecnologie e linguaggi non contassero nulla.

Alla scuola – a quelli e quelle che ci lavorano – si chiede sempre di più, salvo poi sbatterle in faccia l’inadeguatezza per difetto di ordine e disciplina. No, ciò che manca alla scuola per fare meglio quello che già prova a fare è, semmai, il soffio della vita che circola invece in ogni pagina di quella Lettera che non deve smettere di essere letta.

Jacopo Rosatelli

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