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La costruzione del mito

L’importanza di Eleanora Fagan, alias Billie Holiday forse è messa in ombra soltanto dal processo di mitizzazione della sua figura: gran parte di ciò che è stato scritto su di lei riserva alla musica un interesse secondario, insiste piuttosto sui tratti tragici della sua esistenza, cadendo spesso in patetismi da feuilleton.
Il saggio/biografia di Szwed – già noto per la sua monumentale biografia di Sun Ra (minimum fax, 2013) – parte proprio dall’analisi della costruzione del mito di Billie Holiday, che si regge in massima parte sulla sua nota autobiografia La signora canta il blues (Feltrinelli, 2013).

Uno stile indefinibile

Nella seconda parte, dedicata a Holiday “musicista”, Szwed riscopre le principali influenze giovanili (Louis Armstrong e Bessie Smith, le cantanti Ethel Waters, Mildred Bailey e Mabel Mercer) e ne collega lo stile alla tradizione del torch singing, “la capacità di raccontare una storia attraverso una canzone con convinzione emotiva”, derivato dalla pratica canora nel cabaret francese del tardo Ottocento. Tuttavia, lo stesso Szwed deve riconoscere che è praticamente impossibile definire lo stile di Billie Holiday come qualcosa di coerente e univoco: “Nel registro più alto aveva un suono pulito; in quello medio la voce risultava più nitida, e in quello più basso la voce era più ruvida, a tratti sembrava carta vetrata, se non addirittura un ringhio”.

La storia discografica

L’ultima parte del libro è dedicata alla sua storia discografica: dalla genesi dell’inno antirazzista Strange Fruit alle origini ungheresi di Gloomy Sunday, dalla feconda partnership artistica con il pianista Teddy Wilson a quella con Lester Young, dalle incisioni con le orchestre di Count Basie e Artie Shaw fino all’ultimo e discusso album, Lady in Satin, caratterizzato dai baroccheggianti arrangiamenti orchestrali di Ray Ellis e registrato pochi mesi prima della morte.

Simone Garino